Aprile 2022
L’ORO DEL MIO GIARDINO
“Abitiamo nella nostalgia: nei sogni si aprono
serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio
in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme
di papavero più piccolo del mondo.
Scoppia di grandezza”.
(Adam Zagajewski, Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005)
L’artista cerca rifugio nel suo giardino. La sua non è una fuga, ma l’unico modo possibile per tornare ad essere nella storia. Nel tempo degli uomini, della cultura, della vita quotidiana, così profondamente segnato da orizzonti cupi da impedire, talvolta, di vedere a colori.
Ha trovato rifugio nel suo giardino l’artista Raffella Benetti, appena oltre la finestra dello studio dove lavora. Dice di avervi trovato l’oro. Oro purissimo. Oro zecchino. Talmente prezioso da essere eredità per possibilità future.
Non è bastato attraversare la porta, sostare immobile tra la vegetazione. E’ servito mettersi in cammino: ascoltare lo scricchiolio delle foglie sotto le scarpe, lasciarsi attraversare dallo zufolio del vento, riconoscere l’odore acre della terra umida e quello dolce delle forsizie in fiore, annotare tutte le sfumature del grigio, quando è rigato dalle linee dei rami che come mani si allungano per farsi compagni di viaggio o quando, livido e gonfio, invade a tal punto da far rabbrividire.
Il giardino di Raffaella Benetti ha poco a che fare con il giardino perenne, rigoglioso e fruttifero che accolse il naufrago Ulisse nell’isola del re Alcinoo. Non è il paradiso terrestre di un’alleanza mai tradita. Non è il locus amoenus in cui tanta parte della letteratura antica e moderna ha trovato riparo dalle insidie, persino dalla peste. Come quello raccontato da Giovanni Boccaccio, che per 10 giorni ospitò la brigata di ragazze e ragazzi e le loro cento storie con cui intesero, nel pieno di una epidemia, ricostruire un mondo ridotto in macerie.
Il giardino di Raffaella Benetti è più simile alla vita vera, anzi, è la vita: un prolungamento esteriore dell’animo stesso. Dentro c’è il tempo che scorre, la realtà che muta, la consapevolezza della fine, il dolore del limite, la speranza dell’altrove. Dentro ci sono il sambuco, il melo, l’iris, le margherite, i papaveri, i licheni: compagni di viaggio, appunto.
Anche la poetessa polacca Wislawa Szymborska nel “Silenzio delle piante” chiamava l’acero, l’erica, il ginepro e tutti gli altri compagni di viaggio, e aggiungeva che con loro, come con ogni compagno, ”parlare si fa necessario e urgente in questa vita frettolosa”.
E’ un dialogo necessario e urgente quello che l’artista instaura con le piante del suo giardino. E’ un dialogo senza parole, che si definisce nell’ascolto e si costruisce nel silenzio.
Un silenzio dallo spessore diverso, in cui confluiscono i ricordi, le ferite, le attese e lo stupore. Mai il vuoto, però. L’assenza anche quando è percepita diventa materia, è luce, è passaggio.
Qui la natura abbraccia la memoria del passato e la previsione del futuro in un movimento continuo. Lo annota l’artista stessa nel suo quaderno degli appunti: “Passo e ripasso nei luoghi dell’anima, il gesto è lo stesso, il tempo è diverso”. Non c’è nulla di eccezionale in questo passare e ripassare, nulla di eroico in questo viaggio. E’nella dimensione feriale di un giorno tra tanti che il tempo e la natura insieme rivelano per epifanie i loro messaggi e mostrano l’oro del giardino. Sta proprio lì, sotto il tappeto di foglie, protetto da qualche ramo spezzato. L’oro è il seme caduto dal fiore al termine del suo ciclo. L’oro è il messaggio di vita futura che ogni morte porta sempre con sé. L’oro è il trascendente che fa scoppiare di grandezza l’infinitamente piccolo della quotidianità. E’ ciò che dà direzione ad ogni viaggio.
L’arte lo sa che non ha risposte a tutti i quesiti dell’esistere, che non possiede soluzioni facili a drammi complessi, ma l’artista ha fiducia e sceglie di ascoltare, di rimanere in dialogo.
Allora l’obiettivo fotografico di Raffaella Benetti si piega su una radice, su una pianta di licheni o un seme, ne ferma l’istante del transito, dà a quel passaggio densità semantica. Le mani della scultrice contemplano un germoglio capace di restituire colore ad una materia ormai consumata e arsa. Lo scatto su una finestra chiusa apre ad un altrove da cui filtra la luce. I semi raccolti si riempiono di mistero e di sacralità e trovano la loro giusta collocazione all’interno di una teca, dentro ad una pisside, l’oggetto liturgico che contiene il cibo per l’anima che aspira alla vita eterna. L’uomo che ha imparato a riconoscere la sacralità della natura spinge il suo sguardo verso il cielo, tenendosi allo stelo verde di un alto tulipano rosso che scoppia di gioia.
L’arte lo sa che non può sanare, ma può orientare un pensiero, farsi possibilità futura, come l’oro nel giardino dell’artista.
Micol Andreasi