Stefano Luciano


 

 

 

Marzo 2013
CIRCOSTANZE INVISIBILI


Cosa accade sul fare della sera alle vaste sale di montaggio, ai magazzini vuoti, alle rotaie silenziose con i carrelli fermi, ai banconi e ai bancali abbandonati nei laboratori dismessi, ai capannoni deserti di operai e di merci? Il pulviscolo che li ricopre è il segno della fine di un’epoca ma gli oggetti e i luoghi sono rimasti lì, in attesa di una risemantizzazione. E quale migliore semiologo, in tali circostanze, di un artista capace di ridare un senso alle cose ed agli spazi; una identità a ciò che ha perduto il proprio nome perché il mondo che l’ha generato è scomparso o è cambiato o ne ha persa memoria? Stefano Luciano è il pittore impegnato a ricostruire una città: una sorta di Macondo in cui la volontà dell’artista è in grado di reinventare la realtà secondo le proprie percezioni.
Un’operazione creativa molto vicina anche a quella di un altro grande scrittore, Italo Calvino, che fa muovere il protagonista del suo libro “Città invisibili” alla ricerca di ciò che gli altri non vedono. Marco Polo, percorrendo lunghi tragitti tra le città dello sterminato impero del Kublai Kan, compie una ricognizione simile a quella attuata da Stefano Luciano. Anziché nei territori dell’estremo Oriente, Luciano guarda tra le rovine del Nordest dove altri non sanno osservare: ai dettagli che a tutti risultano “invisibili”. Egli sa descriverli con un’attenzione minuta che diviene quasi amorevole ricerca e riesce ad attivare tra le cose quei legami che daranno loro un nuovo senso d’insieme, a segnare un cambiamento di stato tra quella che era una moltitudine di oggetti eterogenei, inutilizzati, spenti ed è ora una nuova realtà abitata da manufatti che molto hanno in comune.
Nei suoi quadri – grandi o piccoli come i finestrini quadrati e senza affaccio di un cavedio – e nelle incisioni ciò non accade però sotto gli occhi di chi guarda, non ancora; vi è rappresentato un forte presagio di quel che potrà succedere tra poco agli utensili e ai luoghi covati dallo sguardo tiepido del pittore. La luce che entra dai vetri rotti e opachi è pur sempre luce che si fa strada tra l’abbandono; sfiora le cerniere ossidate e si posa sui banconi intorpiditi, sui torni e sui mandrini, sugli attrezzi, sui bidoni abbandonati di vernici. Riuscirà a rianimarli.
E’ un linguaggio narrativo filmico, quello di Luciano, in cui la cinepresa si muove di sbieco, quasi ad indicare la difficoltà da parte del regista-cameraman di farsi largo tra le cose, attraverso stretti corridoi o in stanze ingombre, a costruire per sequenze la sua città invisibile. Ma, alla fine, in dissolvenza, troverà ciò che cercava.

Giovanna Grossato

note biografiche


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