Maggio 2012
GIORGIO VALENZIN
Arturo Martini ha dedicato a Giorgio Valenzin uno dei suoi più intensi ritratti ed ha colto, con singolare potenza plastica, la nobiltà del volto del pittore, quella fierezza nascosta che illumina la sua azione di artista. Ma ha unito all’espressione anche un senso di mistero, qualcosa che Giorgio Valenzin raccoglieva nel suo pensiero e apparteneva alla più riposta intimità.
La pittura per Giorgio Valenzin era per prima cosa uno sfogo, un desiderio di aprirsi con gli altri, dire apertamente quello che covava dentro; ma questo desiderio era continuamente trattenuto da mille pudori e da singolari forme di discrezione, che giungevano fino alla timidezza. Questo apparente contrasto ci riporta intatta l’immagine dell’artista, tra i più pensosi e sensibili che abbiamo avuto occasione di conoscere nella nostra città, nella limpidezza del suo profilo morale e nella sua fede per l’arte e per la poesia.
Guido Perocco
UNA BREVE NOTA DI PRESENTAZIONE E DI RICORDO
Giorgio Valenzin era un poeta perdutamente innamorato di Venezia, di cui ha disegnato ogni campiello, calle, angolo con un occhio affettuoso e attento ai suoi aspetti più umili.
I suoi campanili, gli alberi dei campi, le casette, perfino i palazzi sono senza pompa, proprio come è la Venezia che per fortuna i turisti non arrivano a invadere. Ma spesso, specialmente negli ultimi quadri, gli elementi della città reale sfumano nell’astratto, o meglio ancora svaniscono a metà nella nebbia, diventando semplici simboli, come la maggior parte delle opere esposte in questa mostra.
Il suo carattere era come i suoi quadri: schivo, bonario, ma fortemente attaccato alla sua città. E per questo indispettito dell’invasione delle mandrie transumanti dei foresti. Ce lo ricordiamo che girava per le calli cercando di far inciampare con il bastone i culoni tedeschi o le formiche giapponesi (così li chiamava lui; potrebbe sembrare snobismo, o addirittura razzismo, ma era genuino affetto per i suoi luoghi) e intanto brontolava: “Andè a casa!”
Era un uomo pittoresco, con una vita per niente avventurosa, se si eccettua la fuga in Svizzera per scampare alle persecuzioni razziali, ma piena di particolari divertenti. In casa si raccontava che da ragazzo insieme alle lezioni di pittura i suoi genitori lo avevano mandato a imparare il violoncello. Ma aveva dovuto smettere questo studio perché pare che si emozionasse talmente suonando, che scoppiava a piangere, bagnava di lacrime le corde dello strumento e ne rovinava l’accordatura.
E facile immaginare che per gli amici fosse una fonte di affetto e divertimento continuo. Insomma, tutto il contrario del genio scontroso e lunatico. Era un artista gentile nella vita, ma intransigente nell’arte.
Ha vissuto povero, è morto un po’ meno povero ma, come diceva lui, ha avuto la soddisfazione di non dover mai lavorare su ordinazione.
Stefano Torossi