Intrecci


 

marzo - aprile 2025

C’è sempre un imbarazzo, un pudore ancestrale, quando mi viene richiesto un parere o un commento più o meno professionale, sull’opera di un amico di vecchia data. Fa velo la frequentazione pluriennale e la tentazione, insita in ogni “critico” di indulgere nel ricordo e di parlare, in un modo o nell’altro, di sé stessi. È, anche, il caso di questa mostra “Intrecci”, nella quale si presentano gli esiti degli ultimi tre o quattro anni (ma non solo, perché è una esposizione pure parzialmente antologica) di ricerca artistica di Raoul Pajer. Starò lontano, in ogni caso, dalla retorica amicale. Si tratta di un percorso di introspezione di lunga data, mai banale. Le tematiche sono varie e con ispirazioni diverse: dagli I-ching, agli inediti Scavi, i Labirinti, alle Barene, con un occhio alla Venezia che dà il titolo a un multicolore e ben strutturato arazzo. La tecnica impiegata è mista con una fusione (mai confusione, seppure con-fusione) di elementi diversi, anche di recupero, non per ostentazione di modernità ma per intrinseca scelta che si fa necessità. I colori sono spesso netti, come l’intenso blu e il caldo arancione e l’armonia di forme e contenuti dimostra un equilibrio stabile, esito di una volontà che non è mai voglia di stupire, piuttosto quella di unire elementi disparati e di reagire all’insensato bombardamento di immagini disgreganti che ci colpisce quotidianamente. La reazione è un gesto e un richiamo importante; il bisogno di integrazione, anche sensoriale, in un mondo che pare implodere su sé stesso, al quale si contrappone la contemplazione alta dell’esistente. Sono lavori pensati, calibrati, mai improvvisati. Certo, decorativi, ma non solo. Vi si leggono, riflessi (in una assimilazione che è naturale), quasi citazioni, di molta arte del miglior Novecento. Non mi sembrano mai gratuiti o puro richiamo con quel gioco stucchevole del io-so-che tu-sai che io-so, tanto in voga oggi, bensì assorbimento omeopatico di un linguaggio universale. Echi di Capogrossi, di Mark Rothko, Mirò, financo Alberto Burri, vengono naturali, accanto ad aperture inaspettate al continente africano e all’Oriente più lontano. Emerge, non senza fatica, quella che è, a mio avviso, la cifra più alta per un artista: uno stile personale che non è frutto, come troppo spesso avviene, di una “trovata”, ma della ricerca di emozioni personali da condividere.

Giovanni Curatola

 

- note biografiche Raoul Pajer



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